La musica e il suo ruolo sociale

A Cesena c’era un negozio di dischi, il Rev Up. Ero diventato amico del proprietario, Oscar. Non ero uno che mentre guardava i dischi parlava con gli altri clienti, preferivo ascoltare quello che dicevano. Parlavano di musica, s’infamavamo, si autoimbirivano, s’infamavano ancora. Sembrava che la musica fosse una gara a chi ce l’aveva più lungo e non è mai stata la mia idea di musica ma la cosa mi divertiva. Con alcuni di loro sono andato anche a qualche concerto. Nonostante l’aggressività, quegli scambi erano preziosi, perchè magari ti portavano ad ascoltare cose che non avevi considerato. 

A febbraio 2010 mia moglie ha aperto una libreria a Santarcangelo: The Book Room. A un certo punto ha preso in conto vendita da Oscar un 200 vinili e cd, più o meno tutto indie rock e alternative. Adesso anch’io lavoro in libreria. L’anno scorso ci siamo spostati in una sede nuova, dove c’è uno spazio un po’ più grande per i dischi. Questo spazio l’abbiamo chiamato The Record Room. La nostra proposta è ispirata a Oscar, adesso che purtroppo non c’è più. I dischi che ci aveva dato li abbiamo venduti quasi tutti, quelli rimasti sono in una sezione che abbiamo chiamato Archivio Gridelli. Un omaggio a un amico, un ricordo.

Un po’ di settimane fa, due ragazze giovani stavano parlando di fronte alla cassetta dei dischi Hip Hop, e io ho teso l’orecchio per sentire cosa dicevano. “Anche DAMN. di Kendrick Lamar è bellissimo” fa una. “A me piace di più To Pimp A Butterfly, mi sembra più sincero” risponde l’altra. “Mi piacerebbe comprarlo, però la prossima volta, oggi compro quello di Lana Del Rey” ha detto la prima, e sono venute di là a pagare con la 18App.

Un’altra volta due ragazzi, più grandi ma sempre giovani, stavano guardando l’ultimo disco di Kendrick Lamar (sempre lui) e uno dei due ha detto: “Questo è fighissimo, mi piacerebbe, ma costa molto, anche on line eh non solo qui”.

Tante volte mi è capitato di parlare con i clienti di questo o di quel disco, alcuni sborrano di brutto, altri lo facevano le prime volte poi hanno smesso, io l’ho trovato bello, più bello di una volta, non mi innervosisce più, sono diventato vecchio. Adesso quei dialoghi mi sembrano ancora più preziosi, forse perchè a me non succedeva da un po’, o forse perchè oggi, mentre una volta ogni negozio di dischi era un luogo in cui si svolgeva un confronto – entravi in un negozio di dischi in ogni parte del mondo e c’erano sempre delle persone, più o meno fenomeni, che parlavano di musica – oggi non è più così scontato, perchè i negozi di dischi sono meno e in generale le persone non hanno più bisogno, per ascoltare musica, di comprare un cd o un disco.

Tutte le settimane ascolto un podcast che si chiama FRIDAY. Qualche settimana (la puntata era la 51) hanno letto un estratto da un articolo di Matt Dryhust su Art Review. Scrive Dryhurst: 

“Non credo che gli artisti corrano troppo il pericolo di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Le pratiche artistiche sono molto più complesse di uno stile che può essere imitato. Ciò che apprezziamo dell’arte è più sociale di quanto spesso ammettiamo. (…) Anche se è possibile generare artificialmente il suono perfetto di un coro che canta, ciò vanifica lo scopo del valore partecipativo e estatico di essere in un coro”. 

Ci sono due modi di vedere la musica, aggiunge Francesco, una delle voci di FRIDAY. Uno è la musica come commodity, il campo in cui gioca Spotify e forse le radio un po’ di tempo fa. Il secondo è la musica come arte sociale, come modo di collegare le persone e creare relazioni. Attorno all’arte si può creare un mondo. Spesso la musica è fatta di “scene” e community. Questa cosa può essere problematica perchè poi sull’aspetto musicale può finire per prevalere quello sociale, oppure si può cadere nell’autoreferenzialità o nel culto del musicista. Ma si possono, conclude Francesco, coniugare le due cose, musica e socialità.

C’è un discorso legato alla funzione sociale della musica anche in due cose che ho letto negli ultimi mesi: il n.1 del bollettino del Bronson Club e l’articolo su Killers degli Iron Maiden di Maurizio Blatto uscito su Rumore di febbraio 2023

Il discorso di Blatto è sulla musica e sui generi musicali come identità e c’entra con il discorso musica come arte sociale nel senso che ogni individuo fa parte di una società e da essa viene accettato o respinto ma comunque vi si relaziona, e vi si pone di fronte così com’è e come si sente. La musica rappresenta il modo di essere se stessi per molti individui, per molti di noi. Secondo Dryhurst, la musica genera rapporti. Secondo Blatto, può generare l’esclusione di chi ascolta roba diversa dagli altri, può non generare proprio nulla, oppure può far nascere l’amicizia tra persone con gli stessi gusti. Attualmente la sovrapposizione di generi e la trasversalità degli ascolti affianca il discorso identitario. Esistono ancora persone unite da uno stesso credo musicale che si rispecchia in un genere ma esistono anche comunità create semplicemente attorno alla musica, non per forza dello stesso genere. L’ho notato osservando in particolare alcune etichette e musicisti della mia zona.

Il n. 1 del bollettino cartaceo del Bronson Club inizia con una citazione:

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico definirà un non luogo” (cit. Marc Augé, Non luoghi: introduzione a un’antropologia della surmodernità). E poi scrive Chris Angiolini, CEO del locale: “Il Bronson è un LUOGO. Un luogo in cui si condividono esperienze e passioni, circolano idee e ci si può imbattere nella band o nell’artista che può cambiare la nostra vita o anche solo far virare la nostra giornata per il meglio”. La musica ha la sua centralità in un contesto sociale. “Si lo so” chiude Chris “siamo nell’era digitale ma alla fine tutto questo scrollare non è altro che una truffa. Riappropriamoci del nostro tempo per saperne di più o anche solo per non perdere il prossimo concerto”.

Succede anche che – in un negozio di dischi, cioè nel posto in cui si comprano o si da un’occhiata ai “vecchi” cd e vinili – ci si confronti, si parli, si faccia amicizia e magari la sera dopo si vada a un concerto insieme e poi ad altri ancora. Come da Oscar, succede ancora. E se succede da The Record Room, penso che succeda anche nei negozi di dischi aperti da tempo.

Quando succede, tutto assume un valore più grande, il valore della musica di cui parlano Blatto, Dryhurst, FRIDAY e Chris Angiolini.

In negozio non vengono solo gli anziani a comprare dischi ma anche i giovani. La passione per la musica li porta ad ascoltare in streaming ma anche a comprare supporti fisici delle cose che gli piacciono di più. Comprano sia online sia in negozio. Vengono, ascoltano in cuffia al cellulare magari qualcosa che non conoscono, o ne parlano e l’ascoltano con la persona che hanno accanto anche se non l’hanno mai vista prima (è successo da noi!), oppure cercano o ordinano qualcosa che hanno già ascoltato. La svolta dello streaming e la crisi dei negozi di dischi fisici sono innegabili ma in negozio mi pare che la vendita passi anche attraverso una forma di socialità “tradizionale” che, sì, si serve delle tecnologie digitali, ma rimane necessaria e fondamentale. Non perchè dobbiamo rimanere aggrappati alle vecchie cose, ma perchè quella socialità “tradizionale” è fonte di rapporti, dialoghi, amicizia, antipatia e tutto il resto. Perchè “anche se è possibile generare artificialmente il suono perfetto di un coro che canta, ciò vanifica lo scopo del valore partecipativo e estatico di essere in un coro”. E perchè “alla fine tutto questo scrollare non è altro che una truffa”. 

Il podcast è un tipo di trasmissione che ha fatto il botto con lo streaming. Per questo non è per niente scontato utilizzarlo per parlare e divulgare l’idea di musica come condivisione, come fanno su FRIDAY. Farlo è la prova concreta di come si possa divulgare con mezzi contemporanei un’idea tradizionale che non va abbandonata. Le due cose possono coesistere, una (la musica come condivisione) non deve essere per forza esclusa dall’altro (lo streaming), anzi può essere una sua estensione. Sempre nella puntata 51, i ragazzi di FRIDAY, per esempio, hanno detto che stavano pensando di organizzare un festival. Nel corso di due anni e più di trasmissione il loro podcast si è costruito una fanbase: gli ascoltatori abituali saranno i primi a partecipare al festival perchè saranno interessati alla proposta musicale. Inoltre FRIDAY ha una propria identità precisa, sia per come è strutturato dal punto di vista redazionale, sia per il fatto che non si occupa di un genere musicale solo ma di nuove uscite discografiche, in generale: di quelle che ritengono interessanti, loro parlano, a prescindere dal genere (mi hanno fatto conoscere e apprezzare un sacco di cose che altrimenti probabilmente non avrei neanche ascoltato, prime due che mi vengono in mente Yajei e DOMI and JD Beck). La comunità che si è creata intorno al podcast è interessata a questo tipo di ascolto molto variegato. Gli ascoltatori (e magari non solo loro) si ritroveranno in un LUOGO. Il risultato è lo sviluppo, grazie al lavoro realizzato sul digitale, dell’aspetto sociale. Ci sono già i festival delle riviste o delle etichette musicali che puntano a aggregare e far incontrare le persone intorno a un’idea e alla musica, che può essere di un genere o di più generi, ma la particolarità del festival di FRIDAY sarebbe che nasce da un podcast, un prodotto digitale. Non so se ci sono altri festival musicali nati da un podcast ma, a prescindere, è entusiasmante.

Oltre a questo, è bello che diverse persone appartenenti al panorama musicale italiano parlino nello stesso momento di diverse sfumature dello stesso tema. Qualcosa vorrà dire. 

E nella puntata numero 56 di FRIDAY, in apertura, hanno parlato del ruolo sociale dei negozi di dischi: 

“Forse questa è la spiegazione migliore del perchè ha ancora senso che esistano i negozi di dischi, che non ha tanto a che fare con il piccolo negozio che combatte contro le multinazionali, o ha a che fare con il negozio vicino a casa, o con con un’economia di prossimità ma ha più a che fare forse con le storie che ci raccontiamo e che ci piace raccontare e che ci piace vivere. Lo ricollegavo al discorso che facevamo in apertura della puntata 51 in cui leggevo quel pezzo di Matt Dryhust che definiva la musica come un’attività sociale. Ecco, forse anche comprare dischi è un’attività sociale, anche questo podcast in fondo in un certo senso è un attività sociale e ci piace raccontare storie e ci piacciono le storie più che poi la convenienza, il prezzo migliore, la comodità di avere il disco consegnato a casa, e forse in fondo questo è il motivo per cui andiamo nei negozi di dischi e a volte bisogna raccontare una storia (..) per capirlo meglio”. Quando l’ho ascoltato stavo scrivendo questo articolo. E allora tutto torna.

A molti immagino non freghi un cazzo di ascoltare storie o confrontarsi, ma credo che pensandoci molti ascoltatori di musica ne capiscano la forza e l’importanza. Perchè alla fine anche la musica, le canzoni, non sono altro che storie.

Dixi 2022 (una classifica)

Ci sono alcune cose che sono successe quest’anno nel negozio nuovo (non voglio fare pubblicità ma siamo in via don minzoni 15 a Santarcangelo di Romagna). Abbiamo aumentato lo spazio dei dischi*, si è sparsa un po’ la voce e hanno iniziato a venire persone che prima non erano mai venute. Sono successe alcune cose, dicevo, alcune piacevoli altre spiacevoli. Le spiacevoli vorrei non accadessero ma sono sicuramente più divertenti. Una delle ultime, quella di quel signore che comprando l’LP di Abbey Road mi ha detto ” ‘scolta me, guardalo bene questo disco” con lo sguardo di chi stava portando via una gemma sconosciuta ai più, me compreso, lui escluso. Per poi dirmi ” ‘scolta me, mi fai cifra tonda”, senza punto interrogativo, “i prezzi sono scritti a mano, quindi li avete fatti voi”. Oppure una delle prime, quel ragazzo che è entrato, ha guardato distrattamente i dischi e mi ha chiesto “Ma li scegliete a caso oppure…?” (c’è una categoria di persone molto particolare, misteriosa, non foltissima ma rilevante: quelli che non finiscono mai le frasi). Poi ci sono gli sboroni, quelli che hanno visto 18 volte i Sonic Youth, 20 volte i Fugazi, 11 volte Morricone e una volta anche Elvis. Hanno alle spalle milioni di ore di ascolto oltre a una collezione “che nel tuo negozio non ci starebbe”. Poi, simile, c’è un tizio che abbiamo soprannominato “li ho già tutti”. E alla fine – ma solo per ora – arriva il ricattatore, che ti dice che gli piacciono praticamente solo i Culture Club e lancia il guanto di sfida: “dammi un disco, se mi piace torno, sennò non mi vedi più”. Non l’ho più visto. Le cose piacevoli, dicevo, succedono e sono bellissime, per fortuna che succedono. Ma quelle spiacevoli mi hanno fatto capire una cosa importante: che quando andavo da Oscar, pensavo fosse un po’ troppo burbero coi clienti, e invece alla fine probabilmente era solo un modo per difendersi. Tutto questo per dire una cosa, cioè che è da marzo che non scrivo niente qui, e lo faccio adesso per fare la classifica dei migliori dixi del 2022 secondo me, che è il risultato dell’aver ascoltato la metà della metà della metà della roba che è uscita, e quindi è relativissima. E mi immagino cosa potrebbe dire “li ho già tutti” leggendola. Ho tentato di trovare qualcosa che non ha, ma credo sia impossibile.

My FINAL CLASSIFICA

Il primo posto è ora indiscusso, anche se alcuni album hanno dato del filo da torcere a Tomberlin. Rosalìa e Kee Avil hanno fatto due dischi rivolti al futuro ma che alcune volte lasciano dei vuoti emotivi durante i quali perdono di intensità e concretezza. A dirla tutta, credo che ancora più avanti di Rosalìa, che parte da suoni del presente e ipotizza un futuro, sia stat Kee Avil, che ipotizza un futuro senza un’eventuale appiglio al presente. Il disco di Tomberlin non è sicuramente un disco che si spinge più in là del presente, è un disco del presente (cantautorato femminile indie pop e introspettivo) ma non c’è una canzone che non mi sfondi il cuore, oltre ad avere melodie molto belle, una scrittura originale, un po’ imprevedibile, sotto la guida di una voce perfettamente sintonizzata ma anche riluttante che diventa perfetta descrizione del nostro sentimento nei confronti del presente. Per questa sua capacità di esprimere il presente credo che sia indiscutibilmente il mio album preferito del 2022.

Gli Alvvays hanno saputo superare ogni tentazione post punk e hanno dato forma alla canzone pop rock come deve essere oggi, cioè con un carattere, con una personalità propria, che non scimmiotta gli altri colleghi o il passato ma prosegue il percorso dei dischi precedenti, riparte da lì e crea sensazioni sonore nuove, che uniscono pop rock, show gaze e new wave e gli danno una cadenza inedita.

Il disco di Lucrecia Dalt ha una forza tentacolare. Prima di tutto unisce elettronica e percussioni in un modo che sembra essere un incrocio tra paradiso e inferno, suscitando un’attrazione duplice, una nei confronti delle scelte musicali, l’altra tutta sensuale. È un disco bello perché sono belle le idee che contiene, sono belli i suoni, le ritmiche, è bello il gusto trip-hop legato al passato che ti dà ascoltarlo ed è bello il mix di musica colombiana tradizionale che ti spedisce altrove: Cumbia, Salsa e Merengue però rallentate. Lucrecia Dalt è colombiana e come Rosalia (che è spagnola) usa e modifica la musica latina, anche se in modo diverso.

I Moin sono sicuramente il disco in cui ho trovato più conforto, anche se è teso come una corda di violino. Si tratta di un album unico nel panorama delle uscite di quest’anno, almeno tra le cose che ho sentito io, post hard core misto slow core misto post rock. I Clever Square proseguono sulla loro strada post-slacker scrivendo roba che trovo ogni volta più irresistibile, a ogni ascolto. Le radici nell’indie rock americano rimangono la base delle canzoni, ma la strada che hanno intrapreso (già dal disco precedente) è la loro strada. Melodia, pacatezza e una capacità di scrittura molto al di sopra della media, che traccia un percorso tra semplificazione e complessità, nei testi come nella musica. Linqua Franqa fotografa perfettamente la situazione politica americana post Black Lives Matters, ne riverbera l’eco dopo il clamore mediatico ormai spento rendendo valido l’appello ogni volta che gira il disco e ogni volta che la senti gridare “If I die don’t pray you better riot”. Il disco diventa così un simbolo e un mezzo d’espressione universale della lotta contro la violenza e l’arroganza del razzismo. Quello di Maria Chiarà Argirò è il mio album di elettronica e jazz dell’anno. Mi perdo ogni volta che tento di seguire tutti i rivoli in cui si dipana questo disco. 

E alla fine arrivano i Sorry che con un nome e delle facce così non possono che essere i migliori interpreti dello spirito loser di questi primi anni ‘20, perchè ancora oggi, in un mondo ossessionato dal successo, scegliere la sconfitta è rivoluzionario. Le loro canzoni sono dolci, storte ed energiche e se c’è una cosa che mi piace di loro è che non si lasciano sfuggire il fatto che è importantissimo fare questa musica oggi ed è altrettanto importante farla con originalità.

Metto qui la classifica, dalla 10 alla 1 per creare suspense.

10. Sorry, Anywhere but here
9. Maria Chiara Argirò, Forest City
8. Linqua Franqa, Bellringer
7. Clever Square, Secret Alliance
6. Moin, Paste
5. Rosalìa, Motomami
4. Lucrecia Dalt, ¡Ay!
3. Kee Avil, Crease
2. Alvvays, Blue rev
1. Tomberlin, I don’t know who needs to hear this

E per la serie il riciciclone, riciclo una storia raccontata sull’instagram:

Insomma in negozio abbiamo una finestra che dà su un giardino interno molto bello, curatissimo. Questa mattina l’abbiamo aperta, nel tentativo di far entrare un po’ di aria apparentemente fresca, e abbiamo messo su un disco. Il proprietario del giardino era seduto in mezzo alle sue piante a leggere il giornale. Dopo un po’ mi chiama e mi dice 
“Bellissima questa musica, chi è?”
“Si chiama Tomberlin” 
“Mette una tranquillità, è di una delicatezza… Alzi un po’ così sento meglio?”

Nelle canzoni di “I don’t know who needs to hear this” di Tomberlin lo spazio sembra più grande: lo ascoltiamo. Lo spazio è la sua voce, che ha la caratteristica molto accattivante di essere perfettamente sintonizzata ma anche quasi riluttante. Lo spazio è una vecchia chitarra acustica appena pizzicata, un sintetizzatore alla deriva, percussioni spazzolate o belle dritte ma comunque rilassanti, un clarinetto e un sassofono dai movimenti molto ampi, i trilli aleatori di un pianoforte. E la profondità di questo spazio trasmette un amore intenso per la scrittura e l’esecuzione, come se ogni canzone fosse la scoperta di un rifugio. O di una piuma nelle nostre mani. 

Il nostro vicino se n’è accorto. Ma infatti io dico che è l’unico vicino al mondo che chiede di alzare la musica e non di abbassarla.

ALBUM DA ‘SCOLTARE

Ho ‘scoltato altri dischi che mi sono piaciuti molto. Ecco la lista, con qualche commento in qualche caso. Imprescindibile come tutto il resto.

Mai Mai mai, Rimorso

Lyra Pramuk, Delta. Provo una sensazione di vuoto quando lo ascolto, non so se è il Nirvana o se è la (agognata) concretizzazione di un distacco emotivo totale da un mondo di merda, e allora se fosse così potrebbe essere il disco dell’anno. Ma non so se è così, non so se l’ho capito bene. Questa mia incertezza su questa cosa vince sul valore del giudizio soggettivo che assume grande importanza mentre compili una classifica di fine anno, quindi ho lasciato Delta fuori dalla classifica.

Mykki Blanco, Stay close to music. Il più bello tra quelli fuori dalla classifica, che è come se fosse in classifica.

Little Zimz, No thank you

Gazebo Penguins, Quanto. Come dice @disappunto, menano ancora.

Comaneci, Anguille. L’ho ascoltato mille volte, è bellissimo.

Rtj4, Cu4tro

Kendrick Lamar, Mr. Morale & The Big Steppers. Per me è troppo, ma è indiscutibilmente un disco dal valore artistico immenso.

Caterina Barbieri, Spirit Exit

Emma Nolde, Dormi. Mi sono ritrovato in molte cose, anche se ho 40 anni suonati. Voglio dire che dovrebbe essere un disco rivolto soprattutto ai ragazzi di oggi, e invece parla molto anche a quelli di ieri.

Kelly Lee Owens, LP.8

Pinegrove, 11:11 (è colpa della Fede, li ha voluti mettere su 800 volte ultimamente e mi ha preso per sfinimento)

Moor Mother, Jazz Codes. Sempre unica.

Widowspeak, The Jacket. Mi sono perso il concerto al Bronson e mi mangio le dita, mi hanno detto che è stato molto bello.

Federico Albanese, Before and now seems infinite

Perera Elsewhere, Home

Loraine James, Building something beautiful for me

OvO, Ignoto 

Danger Mouse & Black Thoughts, Cheat Codes

Burial, Antidawn

Lleroy, Nodi

Chat Pile, God’s country. La miglior cosa pesa ascoltata quest’anno.

Carmen Villain, Only love from now on 

Big Cream, Hanging. Un cambiamento eccezionale, non sono più attaccati ai modelli come lo erano nel primo disco, il primo disco mi piaceva tantissimo, adesso si sono avvicinati al post punk e c’è qualcosa di speciale che li rende meno post punk e più interessanti di più della metà della roba post punk uscita quest’anno e l’anno scorso e l’anno prima.

Buon 2023.

*è una delle cose più belle che mi siano mai successe nella vita

Metti le dita nella presa

Metti le dita nella presa è la prima canzone di TOTALE! primo disco dei TOTALE! uscito nel 2021 e prodotto dall’etichetta EEEE. Al progetto hanno partecipato un sacco di persone:
– Luca Tanzini (Tab_Ularasa, alla voce, chitarra e theremin) 
– Gianmaria Zanda (Forse, membro di The V.AC. / The Bomb & the 85th Koala, alla voce, chitarra, organo elettrico e basso)
– Flavio Scutti (basso, organo elettrico, Fender Rhodes e glockenspiel)
– Beppe Sordi (sintetizzatore modulare)
– Damiano “Dug” Merzari (batteria)
– Luca Ciffo (registrazioni, missaggio, tastiere, percussioni e cori)
– Riccardo “Rico” Gamondi (mastering)
– Simone Type (grafica, serigrafia e packaging) 
– Vasco Viviani (produzione). 

Quando andavo da mia nonna, lei aveva una paranoia, ne aveva tante, ma una delle più solerti era che mettessi le dita nelle prese di corrente. La situazione tipica era: io in sala a fare i compiti, lei in cucina, mi portava una cedrata e una fetta di pane burro e zucchero e mi diceva: “Io sono di là, chiama se hai bisogno. Non mettere le dita nelle prese!”. Per sicurezza, ci metteva una sedia o uno sgabello davanti, oppure il nastro adesivo. Ero grandicello, prima o seconda media direi, ma niente, aveva questa paura. Mio nonno, per non essere da meno, era fissato con le placche delle prese e controllava sempre che fossero ben solide. Lo faceva anche a casa mia. Stavo in una botte di ferro. Ma la situazione non era rilassata, io ero spaventato e non volevo metterci le dita dentro. Allo stesso tempo, ero curiosissimo di farlo. Cosa sarebbe successo? Sarei diventato una televisione? Un frigorifero? Quale elettrodomestico? Sicuramente se avessi potuto scegliere avrei detto tostapane, perchè mi piaceva il pane tostato e sarei stato fiero. O sarei diventato l’uomo elettrico, che qualsiasi cosa tocca carica? La prospettiva non mi dispiaceva. O un palo della luce. Già questa mi piaceva di meno. 

Una volta ho provato a mettere le dita nella presa. I nonni facevano il pisolino in sala, io sono andato in cucina, ho infilato il braccio sotto lo sgabello, ho tolto il nastro adesivo e l’ho fatto. Ma non è successo niente. Al posto delle dita non avevo dei cannellini. Penso sia stato uno di quegli episodi che mi hanno aiutato a diventare grande, a non credere a tutto quello che i genitori, i nonni o gli zii mi dicevano, a iniziare a sviluppare un pensiero mio sulle cose, basato su una qualche esperienza, che prima non potevo avere perchè ero piccolo per averne un numero sufficiente a sviluppare un bagaglio consultabile in caso di bisogno.

Mi è tornato alla mente questo ricordo ascoltando Metti le dita nella presa. Il testo dice che se il tuo ego è troppo ingombrante, devi mettere le dita nella presa: la corrente elettrica uccide l’ego. Lo si apprende dal fatto che l’ego si stava guardando allo specchio, all’improvviso compare un palo della luce che sbatte contro la testa dell’ego e lo uccide. Insomma è una canzone sull’ego, su quelli che ce l’hanno troppo grande. Mi ha fatto pensare a una canzone di Caso: tutto un altro genere, tutto un altro modo di scrivere, ma sono entrambi testi contro l’Ego. Io ho un ego delle dimensioni di una stellina n. 27, non è sempre un vantaggio, anzi spesso è uno svantaggio, ma queste due canzoni contro l’EGO mi rincuorano

Metti le dita nella presa è una canzone assurda. Ma non è tanto l’essere assurda che mi stupisce, visto che è assurda come tutte le altre canzoni di Tab_ularasa. A stupirmi è il fatto che da una parte il testo sia raccontato come un trip (zero realistico), dall’altra la musica sia sincopata e molto sui denti (molto realistica). 
Il testo si serve del surrealismo di Tab_ularasa e parte da un non risveglio, che è più di un semplice sogno: siamo oltre Bunuel. Cosa succederebbe al tuo ego se domani mattina non ti risvegliassi? Quindi non cosa succerebbe a te. Cosa succederebbe al tuo ego. La conclusione è che il tuo ego è talmente grande da riuscire a sopravvivere alla tua morte, se non fosse per quel palo della luce sarebbe ancora in giro.
La musica è un noise blues punk rock con un giro (quasi sempre) uguale a se stesso, ballabile, di quei balli che durano un minuto e fai tutto con le spalle, un po’ alla Lindo Ferretti sul palco con i CCCP. Estremamente concreto. Il basso, molto punk rock italiano, sempre insistente, che non molla mai un secondo, è zelante e questo lo rende fisicamente molto presente.

Musica e testo cozzano, accostano due mondi separati, fatti di consistenze diverse: è questo che fa di Metti le dita nella presa una canzone spiazzante. Non avevo mai notato questa divergenza nelle canzoni di Tab_ularasa, forse c’è sempre stata ma io non l’avevo notata, di solito venivo colpito (in testa proprio) dal modo in cui il testo e la musica si sposassero bene a livello di sghembezza. Con i TOTALE! le cose cambiano. Il disco contenente Metti le dita nella presa infatti non è solo fatto dell’ego di Tab_ularasa (forse Metti le dita nella presa uccide il suo ego? quindi Metti le dita nella presa c’est moi?) ma è costruito sulla collaborazione.

TOTALE! risente soprattutto delle precedenti produzioni di Forse e Tab_Ularasa, ognuno dà il suo contributo, nello specifico Forse sfoga il proprio tocco psichedelico-acidulo anni ‘50, Tab_ularasa la vena pop-sperimentale indie-rock. Alcuni dei brani di Tab_Ularasa presenti in TOTALE! sono di qualche anno fa. Forse lo potete sentire qui in un lavoro recente, chi meglio di lui può spiegare se stesso: Harmony. Secondo me, in TOTALE! si sono influenzati a vicenda.

E la cosa assurda è che, pur essendo un album di spiantati, potete benissimo metterlo su a una festa per far ballare gli invitati, perchè in fondo è un cazzo di disco soul e rock’n’roll (con un gospel al centro). Roba che per elettrizzarvi allo stesso modo dovete mettere le dita nella presa. (Posso solo aggiungere una cosa: sulla pericolosità del gesto, i TOTALE! sono d’accordo con mia nonna).

Tutto il disco: TOTALE! dei TOTALE!